Sulla sospensione dei trattamenti

13 dicembre 2016

Sulla sospensione dei trattamenti

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Nota del Direttore sulla sospensione dei trattamenti

Con la presente nota si intendono fornire alcuni elementi per chiarire le delicate questioni che riguardano il cosiddetto diritto, da parte del paziente, di rifiutare terapie e trattamenti sanitari, così da mettere in luce i criteri che dovrebbero guidare l’agire del medico.  Argomenti complessi, questi, che non si possono risolvere soltanto in punto di diritto, poiché di fatto in  molti casi implicano aspetti di natura relazionale e valutazioni etiche che debbono essere svolte in situazioni umanamente e clinicamente difficili.

A fronte di ciò, è perciò necessario illustrare alcuni principi in grado di favorire un corretto agire medico, consapevole e responsabile. In primo luogo va, quindi, sottolineata la distinzione tra il diritto di non sottoporsi a cure e trattamenti – peraltro sancito dalla stessa Costituzione e punto cardine di un rapporto medico-paziente che non abbia carattere coercitivo - e la questione della sospensione di trattamenti già in corso che si configurano come presidio e tutela della vita del paziente. Tra le due situazioni c’è, in effetti, una differenza non soltanto fattuale, poiché nel primo caso si tratta di non iniziare una cura e nell’altro, invece, di sospendere un processo terapeutico in atto.

Dal punto di vista etico è importante evidenziare che il problema di quando e se sospendere un trattamento non può essere risolto semplicemente rispondendo alla domanda “chi deve decidere”, ma mettendo in risalto il quesito “in base a quali criteri si deve decidere”, affinché la scelta non sia soltanto libera e volontaria, ma eticamente giusta e corretta.

L’alleanza terapeutica si fonda, infatti, sulla condivisione contenutistica della scelta e non sul prevalere di una volontà rispetto a un’altra. In questa prospettiva, è evidente che non è sufficiente la decisione o la volontà del paziente di interrompere un trattamento, qualora abbia una funzione salva vita e conservi una sua efficacia terapeutica, a rendere legittima eticamente la sospensione del trattamento stesso. Infatti, come nessun medico può intraprendere un atto terapeutico qualora lo ritenga inappropriato clinicamente, così pure non deve sospendere alcun intervento qualora ritenga che, da un punto di vista clinico, risulti proporzionato alla situazione del paziente e in grado di produrre più benefici che effetti collaterali negativi.

Di per sé ogni trattamento terapeutico, anche dopo che è stato intrapreso, può del resto diventare, per l’evoluzione della malattia e della situazione clinica, non più appropriato. Quando ciò accade – ma la valutazione è di tipo clinico – il trattamento, non solo può, ma deve essere sospeso dal medico, essendo cessata la sua funzione terapeutica. Un tale modo di operare è, dunque, connesso, di fatto e di diritto, al carattere proprio del processo di cura e di assistenza che regola la relazione medico-paziente. Invece, la richiesta di sospendere un trattamento già avviato, che continua a essere appropriato, si allinea, in modo più o meno consapevole, alla logica che governa l’assistenza al suicidio e la domanda eutanasica.

Stanchezza, rassegnazione, sofferenza, non sono indici di sproporzionalità terapeutica, e vanno superati con metodi adeguati. Elaborare una teoria generale che falsifichi questo dato confonde le idee e mina la correttezza del dibattito bioetico perché rende talmente impreciso il criterio della proporzionalità e dell’appropriatezza da qualificare come accanimento qualsiasi atto che sia in contrasto con la volontà del paziente.

La dinamica di cura e di assistenza perde, però, di significato e di valore se si traduce nella pura ratifica di volontà e decisioni, senza possibilità di un consiglio, di un confronto, di un dialogo che sia, sì, certamente personale e umano, ma comunque segnato dalla competenza clinica sulla appropriatezza degli strumenti terapeutici in essere nella singola situazione.

Linee guida e protocolli sono decisivi se aiutano a comprendere la specificità di ogni singola situazione clinica e facilitano l’elaborazione di criteri non arbitrari, che pongano al centro la persona nei suoi fondamentali diritti di cura e assistenza.

Nota stampa

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