Sul suicidio medicalmente assistito

30 novembre 2011

Sul suicidio medicalmente assistito

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Il suicidio, medicalmente assistito, di Lucio Magri ha aperto, di fatto, un dibattito nel Paese. Mascherati sotto gli appelli al silenzio, alla pietas, al rispetto di una decisione personale, esponenti della cultura e della politica non hanno fatto mancare il loro giudizio avanzando una interpretazione politica di un gesto di disperazione umana che, per quanto possa essere compreso, non può essere né condiviso, né accettato. Il suicidio è sempre un fallimento: della politica, della cultura, della società, dell'assistenza, forse anche - ed è la cosa più dura da ammettere - dell'amicizia e degli affetti. E come un fallimento va trattato. Non come una battaglia di civiltà.

Il fatto che la vita di Magri si sia consumata in una "clinica della morte" in Svizzera pone in luce il radicale stravolgimento che subisce l'arte medica quando si presta ad avallare un inesistente diritto di morire: la morte non può mai essere considerata un bene da tutelare o da garantire e non può certo essere considerata un "farmaco" somministrabile da un medico, il cui compito si dovrebbe riassumere nella cura del malato.

Va deprecato il fatto che molti mass media abbiano collegato la scelta di Magri con la depressione, definita malattia inguaribile, dimenticando quanto in realtà si sta facendo per curare le persone che soffrono di questa grave condizione patologica che non merita certo di essere stigmatizzata come anticamera del suicidio. 

In un periodo di crisi economica e sociale, di tutto abbiamo bisogno tranne che di un messaggio che radicalizzi l'estremo gesto della solitudine e della disperazione di un uomo come un modello da cui trarre insegnamenti politici.

Nota stampa

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