Si può risarcire qualcuno perché nato con sindrome di Down? La Corte di Cassazione, con la sentenza del 2 ottobre, ha risposto affermativamente a questa domanda risarcendo con un milione di euro una bambina nata sedici anni fa con tale patologia e, di fatto, condannando il medico per non aver eseguito una diagnosi adeguata.
Il testo che giustifica questa sentenza è estremamente articolato, infarcito di argomentazioni e analisi che spaziano dal diritto alla filosofia. Riservandoci il tempo adeguato per una puntuale disamina del testo stesso, che si inserisce a pieno titolo nel dibattito bioetico sul cosiddetto "danno o torto da procreazione", risulta in ogni caso discutibile e confutabile il messaggio che ne esce. Per quanto si tratti, con ogni probabilità, di una semplificazione, il giudizio è inevitabilmente quello che sarebbe meglio non nascere che nascere con una patologia. Si ha l'impressione di un tragico salto di qualità che porti ad attenuare i diritti fondamentali dell'uomo laddove una malattia o menomazione ne mini la capacità di autonomia e indipendenza.
La questione non è solo riconducibile al tema dell'aborto e non può essere archiviata nel dibattito tra "pro life" e "pro choice".
In ogni caso è evidente nella sentenza un uso arcaico dei concetti di "handicap" e di "diversa abilità" che non tiene conto dell'evoluzione concettuale che ha portato alla Convenzione Onu dei Diritti delle persone con disabilità (Dicembre 2006, ratifica italiana marzo 2009).
Quando si entra nella logica di una misurazione di danni e benefici che hanno al centro non un atto volontario ma una condizione esistenziale come l'essere malato, si perde il concetto di incommensurabilità dell'esistere dell'uomo concreto che la modernità ha posto come marchio stesso della dignità e individualità umana, al di là di ogni patologia e differenza di status sociale e economica: un valore che non ha prezzo.
La sentenza si serve e veicola una logica irrealistica e controfattuale per cui ogni evento della vita, che per sua natura possa comportare una forma di disagio, viene interpretato come un'ipotesi di colpa da addebitare a qualcuno.
Inutile fare trasmissioni e commuoversi di fronte alle Paralimpiadi se poi il messaggio che l'opinione pubblica percepisce è che nascere con una patologia sia solo un peso esistenziale, economico e sociale per se stessi e per gli altri. Interroghiamoci se questa sentenza non dia, poi, nuova linfa ad una medicina difensiva che non avrà più a cuore la tutela del paziente ma finirà, invece, per vederlo come un possibile nemico.
I problemi sono molti e non si può e non si deve pensare che possano essere chiusi con una sentenza.