In merito all' "aborto post-nascita"

29 febbraio 2012

In merito all' "aborto post-nascita"

Condividi su:

Hanno giustamente suscitato clamore e indignazione le tesi enunciate da Alberto Giubilini e Francesca Minerva nell'articolo: "After-birth abortion: why should the baby live?" apparso sul «Journal of Medical Ethics».

L'articolo, scritto da due autori italiani, sostiene la legittimità morale e giuridica dell'infanticidio chiamandolo, con una manipolazione linguistica su cui occorrerebbe soffermarsi, "aborto post-nascita".

Chi conosce il dibattito bioetico sa che questa tesi non è affatto originale: rappresenta una riproposizione, forse neanche troppo efficace, delle argomentazioni del bioeticista australiano Peter Singer, da sempre sostenitore della legittimità dell'aborto volontario e dell'infanticidio. Ormai anche le cosiddette prestigiose riviste internazionali riciclano tesi vecchie e poco consistenti. Singeriana è anche l'argomentazione di fondo utilizzata nel testo: si legittima l'infanticidio perché i neonati, anche in assenza di una condizione patologica, non avrebbero alcun esplicito interesse a vivere e in questo loro limbo coscienziale non godrebbero nemmeno dello statuto di persona. Uccidere un neonato, insomma, non determinerebbe nessun danno.

In realtà, fin dal suo primordiale sviluppo ognuno di noi manifesta un esplicito interesse alla vita, che potrà poi essere confermato o no con atti e parole se non verremo uccisi prima in nome del "disinteresse" altrui. L'essere persona umana si inscrive in questa condizione esistenziale per cui ognuno si qualifica come "figlio" e non soltanto come puro insieme di organi interpretato dalle leggi della medicina e della biologia. Negare questa lettura del venire al mondo e stravolgere così il senso della stessa generazione umana significa violare definitivamente la prospettiva etica, che non è mai puro bilanciamento di interessi, di costi e benefici.

Oltre che miope, la lettura del concetto di interesse per la vita proposta da questi difensori dell'infanticidio, è poi anche cinica perché legittima l'individualismo del più forte (l'adulto sano) che non ha alcun "interesse" allo sviluppo degli interessi di coloro che ha generato. Interroghiamoci su quale immagine di padre e di madre emerga da questa "colta" dottrina.

Una barbarie in doppio petto accademico che di fatto riapre lo spazio dello stigma sociale nei confronti della malattia e, ancora più semplicemente, dell'infanzia: riemerge una concezione "cosale" e "proprietaria" del generato, a cui non si sa più offrire quell' ospitalità che abbiamo imparato a non negare a nessuno "straniero".

Ad inquietare è, poi, il fatto che proprio il concetto di persona, divenuto nella cultura occidentale la via breve per riconoscere dignità e diritti a tutti gli uomini, finisca per essere utilizzato per legittimare sul piano teorico la più evidente violazione dei diritti dell'uomo.

Al di là della riflessione accademico-culturale, il tema diventa decisivo, dunque, anche dal punto di vista politico. Se non siamo in grado di tutelare chi non è capace di auto-tutelarsi mettiamo fine all'idea stessa di democrazia così come l'abbiamo ricostruita dopo le violenze totalitarie.

In una società liberale e pluralista ci sono azioni che devono rimanere intollerabili, che non possono cioè essere oggetto solo di biasimo morale ma che richiedono la sanzione giuridica, perché minano le condizioni stesse della convivenza civile.

Nota stampa

Condividi su: