L’esperienza è fatta di eventi. Alcuni si ripetono senza farsi notare; altri sono così radicali da cambiare in modo decisivo i significati dell’esperienza stessa. La maternità surrogata rientra in questa seconda categoria, dando luogo a uno strano connubio tra ‘tecnologia’ e ‘carnalità’ in cui l’aumento della prima segna lo scindersi e il rarefarsi della seconda.
Per questo la pratica della surrogacy rappresenta qualcosa di mai visto prima: con essa non solo si appalta alla tecnologia l’atto generativo, ma anche il materno, che così viene scomposto, assegnando a tre figure femminili ciò che – nella generazione – avviene nel corpo dell’unica madre. Quanto accade durante i nove mesi della gravidanza esce semplicemente di scena, sulla base di quella stessa logica che considera irrilevanti per il ‘prodotto’, una volta finito, le circostanze e le procedure della sua produzione. Eppure, i piani di lettura del fenomeno di sostituzione di maternità sono davvero molto più estesi. Tanto che, inavvertitamente, sotto il nostro sguardo si va realizzando un mutamento di civiltà che espone lo statuto dei figli e di ciascuno al ‘deflagrare’ della differenza tra le ‘persone’ e le ‘cose’.
A rischio, così, è ciò che nell’etica ha il linguaggio della dignità e nelle relazioni quello dell’amore: il senso dell’unicità.