Università Cattolica del Sacro Cuore

Progetto in Camerun


 

Tra il 9 e il 19 aprile 2019 un gruppo del Centro Studi e Ricerche sulla Famiglia, coinvolto dal CeSI (Centro d’Ateneo per la solidarietà internazionale) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ha realizzato un’azione di formazione all’interno del progetto “Sguardo oltre il carcere. Rafforzamento della società civile nell’inclusione sociale e nella tutela e promozione dei diritti dei detenuti ed ex detenuti in Camerun”, un percorso formativo a cui hanno partecipato 15 rappresentanti della società civile e del pubblico, ma anche del privato e del volontariato (13 uomini e due donne) provenienti dalle realtà locali di Mbalmayo, Bafoussam, Douala e Garoua. Persone con una formazione di base in ambito socio giuridico ed educativo, con un forte impegno nella relazione d’aiuto e desiderose di riflettere sulle diverse esperienze nell’ambito delle carceri (compreso un aumônier del carcere).

Sono partner in questo progetto, che sarà seguito da Costanza Marzotto e Miriam Parise per i prossimi due anni con un monitoraggio a distanza e sul luogo, l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, “Avvocato di strada” e il Centro per l’Orientamento Educativo – COE di Barzio (LC) - una ONG che da oltre cinquant’anni è presente nel paese con scuole, ospedali e centri di accoglienza per le persone fragili e che ha dato ospitalità al gruppo insieme alla Diocesi di Mbalmayo. In Camerun le formatrici hanno avuto modo di visitare anche il carcere di Mbalmayo, uno dei più piccoli del paese, constatando le condizioni di miseria e sovraffollamento vissute dagli oltre 350 detenuti, non diverse dalla povertà ancora diffusa nel paese.

Obiettivo della formazione: trasmettere le competenze per “diventare conduttori di gruppo di lavoro”, a cominciare dalla condivisione del modello relazionale simbolico in un contesto assolutamente nuovo e molto interessato alla dimensione di senso.  

Sulla base di un’analisi precedentemente svolta, con un ampio campione di soggetti coinvolti a vario titolo nelle diverse fasi della carcerazione, sono state realizzate quattro giornate di formazione con un gruppo di persone impegnate in un itinerario assai complesso per la cura dei legami e responsabili di avviare “des tables de coordination”, tra organizzazioni carcerarie, enti locali, cooperative di lavoro, ecc. per la costruzione di una rete di supporto al detenuto e alla sua famiglia in vista della riconquistata libertà. Come è noto, infatti, per chi è recluso la maggior sofferenza è quella di sperimentare la totale impotenza verso coloro a cui si vuol bene, che vivono fuori dal carcere e che spesso dimenticano o si vergognano della relazione con il parente che si è macchiato di un reato.

Ma molte testimonianze raccolte hanno permesso di immaginare la generatività futura del seme piantato. Un esempio su tanti: Michela Gaffuri Riva, madre di famiglia e responsabile locale del progetto, ha ricordato un evento alle origini del suo impegno in carcere, quando ancora era volontaria per il Servizio Civile. Avendo incontrato un uomo da mesi in galera, che non sapeva niente del suo destino, se e quando sarebbe uscito, lo ha accompagnato a scoprire il dossier semi scomparso relativo al suo processo. Da allora e anche dopo il rilascio dal carcere l’uomo le è ancora oggi grato per questa finestra di speranza aperta nella sua vita. Del resto lo stile del COE, a fronte di una criticità davvero drammatica nella realtà camerunense, è proprio rispondere con l’offerta di un percorso da seguire insieme affinché la mancanza si trasformi in risorsa.

Contemporaneamente il gruppo di lavoro del Centro Studi e Ricerche sulla Famiglia ha messo a fuoco la questione della recidiva e della “non domanda”, ovvero di una resistenza del detenuto al reinserimento sociale e, di conseguenza, della difficoltà a coordinare soggetti con funzioni e compiti assai diversi. Molto tempo ed energie sono stati dedicati all’analisi della domanda alla base della formazione e anche delle aspettative e risorse da mettere in gioco in questo progetto psico-socio educativo. Analogamente i coordinatori dei tavoli di lavoro si dovranno soffermare a lungo sul perché (bisogni noti e bisogni segreti) i partecipanti ai tavoli di coordinamento potranno essere coinvolti e restare a lavorare insieme.

Fin dalle prime rappresentazioni grafiche elaborate dai partecipanti e condivise in piccoli gruppi e poi in plenaria, la questione centrale è apparsa quella di ridisegnare i confini, rinsaldare le relazioni e riaffermare il pieno diritto alla cittadinanza per il detenuto. «L’impresa è gigantesca”, ha commentato Costanza Marzotto al rientro “e siamo consapevoli della necessità di un ingaggio a più livelli per la realizzazione di uno sguardo nuovo sulle carceri, sia politico che culturale; ma ciò che più ci ha colpito era il desiderio di fare gruppo tra i presenti, di sentirsi parte di una rete impegnata in un obiettivo comune e desiderosi di apprendere dall’esperienza altrui.  È innegabile che sul tema le persone esperte erano i partecipanti. Quello che è stato chiesto a noi docenti dell’UC. era di svolgere la funzione del “terzo”, ovvero di colui che ascolta lasciando traccia, permette di nominare fatti e sentimenti a volte impronunciabili, e di accedere alla dimensione costruttiva del conflitto e alle strategie di mediazione per la sua gestione».

I contenuti trasmessi e intorno ai quali il gruppo ha avviato la costruzione di un sapere comune, di un saper essere e di un saper fare, riguardavano la dimensione storica e relazionale dell’identità del soggetto (ciascuno ha redatto il proprio genogramma familiare, ma anche lo stemma del proprio tavolo di coordinamento cittadino), come pure le dimensioni interattive, relazionali e simboliche della vita di un gruppo di lavoro. Un adattamento creativo del Disegno Simbolico dello spazio di Vita del tavolo di coordinamento, ha permesso di rappresentare le relazioni interne ed esterne al gruppo e le loro qualità, ma anche di prefigurare l’impatto degli eventi critici passati, presenti e futuri e di concentrare le risorse gruppali intorno a temi cruciali condivisi. 

La proposta di rileggere la transizione critica della carcerazione nella vita di un detenuto, della sua famiglia e della sua stirpe, è apparsa utile per continuare l’impegno appassionato dei partecipanti nelle rispettive realtà locali, ma anche per coinvolgere più attori nella costruzione di soluzioni possibili (una realtà di oltre 120 rappresentanti delle istituzioni, delle cooperative, delle associazioni e degli attori del volontariato presenti nelle quattro realtà locali).

«Mai come in questi giorni è apparsa utile la fiducia nei portatori del problema, ma anche la speranza riposta sui legami esistenti, da rinsaldare o da costruire tra régisseurs, bénévoles, coopérateurs e guardie carcerarie o assistenti ecclesiali, per una realtà più giusta. La disponibilità a mettersi in gioco nelle simulazioni, a condividere le difficoltà o le criticità vissute è stata molto particolare e i riti di apertura e chiusura delle 8 ore quotidiane di formazione, hanno permesso anche di redigere un piano di piccoli passi da compiere nelle rispettive realtà territoriali e di formulare un proclama rivolto a COE come interlocutore primario di questo progetto di coordinazione tra coloro che marceranno nei mesi futuri attorno al carcere, per la costruzione di uno sguardo diverso sui detenuti e le loro famiglie».

Ora saranno realizzati quattro appuntamenti via Skype con le singole équipe di lavoro e a gennaio 2020 è previsto un altro modulo di lavoro insieme, in cui condividere le sperimentazioni effettuate e individuare insieme azioni e significati possibili per l’attuazione di uno sguardo nuovo oltre il carcere. «I volti e la rete sono stati gli ingredienti dai quali siamo state maggiormente colpite. Ognuno è arrivato con la sua faccia che ha messo in gioco nella relazione con gli altri, ma ora il volto di ciascuno è annodato a una rete e anche se il lavoro di ciascuno è ripreso a Douala, Mbalmayo, Garoua, Bafoussam o a Milano, chiudendo gli occhi saremo accompagnati dallo sguardo di questi soggetti Altri per noi, ma stampati per sempre nei nostri cuori e nelle nostre menti. Vengono in mente le parole di Padre Giampiero Caruso della Fraternità San Carlo a Mosca, che rivolgendosi ad un detenuto riesce a dirgli 'Tutto il male che lei ha compiuto, tutti gli errori e i peccati non sono l’ultima parola sulla sua vita. Ciò che la definisce è il fatto che lei è amato da Chi le sta donando la vita, ora. Per questa ragione, ogni istante le è dato per ricominciare di nuovo"».

Renata Maderna